Se la lentezza è smart nei borghi si può vivere in qualità

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di Stefania Emmanuele, Project manager di Borgo Slow

Borgo Slow è una community di buone pratiche nata con l’intento di osservare e mettere in rete nuovi modelli di vivibilità dei borghi. Borgo Slow nasce in Calabria dove circa l’80% dei Comuni è al di sotto dei 5 mila abitanti; l’Italia ne registra il 69,54% e molti di questi piccoli Comuni si trovano in aree scarsamente accessibili – definite anche aree interne – e quasi prive di servizi di prima necessità.

Quando la popolazione è sparsa in tanti piccoli insediamenti i servizi che comportano costi elevati e servono ad un numero limitato di persone sono spesso i primi ad essere soppressi con una serie di concause: tasso elevato di abbandono scolastico, alta percentuale di giovani che non lavora e non frequenta corsi di formazione e bisogni medici non soddisfatti. Così oggi in molti piccoli comuni si ricorre alla cooperazione e al welfare di comunità. Esperienze italiane ed europee dimostrano che proprio nelle zone rurali e intermedie dove si concentra la maggior parte dei beni naturali, questi esprimono il loro vantaggio competitivo, la loro identità e l’attrattiva che esercitano come luoghi in cui vivere. Bisogna creare un percorso alternativo che punti su strategie di cooperazione per la rigenerazione dei beni comuni, delle risorse ambientali e delle specificità territoriali.

I borghi devono semplicemente chiedersi quale possa essere una strategia per migliorarsi a partire dalle risorse di cui già si dispone. Per molto tempo siamo stati abituati a ragionare in termini di assenza e di mancanza: le Aree Interne e molti paesi sono quelli in cui mancano i servizi, le infrastrutture, il lavoro e di conseguenza anche la gente. Una rappresentazione “vuota” del nostro territorio che ha inibito visioni, slanci, sogni. Ci vogliono servizi per la popolazione che abbiano la dignità di servizi e garantiscano pieni diritti di cittadinanza ad ognuno in ogni luogo. E qui c’è un salto culturale da fare, superando la logica delle economie di scala per utilizzarne altre, ad esempio portando i servizi laddove non ce n’ è bisogno, immaginando che i servizi sono un investimento sociale per attrarre persone. Bisogna che si lavori alla banda larga fino al punto più sperduto, perché non averlo fatto è una scelta politica. Ci vogliono servizi per la popolazione che abbiano la dignità di servizi e garantiscano pieni diritti di cittadinanza ad ognuno in ogni luogo. Fino ad ora si è pensato a tarare i servizi rispetto agli abitanti, invece serve la visione da qui a vent’anni. Iniziando a fare ragionamenti di questo tipo si può pensare a territori abitabili, al ripopolamento rurale provando a connettere la formazione ad occasioni concrete di lavoro, provando a realizzare servizi innovativi che consentano alle persone di fare smart working in un’area rurale, puntando su scuole d’avanguardia. Sono tanti i progetti di innovazione sociale espressi dai borghi: turismo lento e culturale con gli alberghi diffusi che danno nuova vita a spazi vuoti ed edifici abbandonati, festival che rigenerano il borgo attraverso vecchi e nuovi abitanti, progetti rurali che innovano il concetto di agricoltura e attivano tutta la filiera del turismo fino alla trasformazione e alla commercializzazione dei prodotti autoctoni. Anche la cultura oggi assume un ruolo determinante per il benessere delle comunità; cultura non è semplicemente “tempo libero”, ma un elemento che racchiude economia e politica. Nel welfare culturale la cultura si rimette in gioco come elemento di cura della comunità e agisce in particolare dopo devastazioni come quella che stiamo vivendo. Il COVID-19 ha proiettato l’intera nazione nel futuro prossimo venturo, con lo smart working che ha reso concreta la possibilità di lavorare ovunque. La banda larga potrebbe rendere raggiungibili e abitabili luoghi decentrati, superando ataviche barriere infrastrutturali, ma per ottenere comunità funzionali e vive serve entrare nella logica di guardare ai problemi concreti, liberandosi dall’ipocrisia di ricordarsi dei piccoli centri solo quando è utile a raggiungere scopi di assistenzialismo politico, con progetti astratti, calati dall’alto, preparati ad hoc per intercettare fondi pubblici.“Bisogna uscire dalla dittatura del consueto che spesso caratterizza le piccole comunità. Una buona pratica per i nostri paesi è lo sblocco dell’immaginazione. In fondo la tradizione è un’innovazione che ha avuto successo. Troppo spesso nei piccoli paesi si ha paura di essere visionari, come se questo ci potesse assicurare un giudizio di follia da parte degli altri. Urge anche nelle stanze della politica la presenza dei visionari che sanno intrecciare scrupolo e utopia, l’attenzione al mondo che c’è col sogno di un mondo che non c’è.” (cit. Franco Arminio, paesologo)

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