Esperienze al museo d’Arte Orientale di Venezia

di Marta Boscolo Marchi, Direttrice Museo d’Arte Orientale Venezia

L’attività che oggi vi vogliamo illustrare è nata da una convenzione tra il Museo d’Arte Orientale di Venezia e PSIOP, Scuola di specializzazione in Psicoterapia, per la realizzazione di un workshop di avviamento alla manutenzione dei beni culturali di persone con disabilità psichica, progetto che ha avuto la supervisione del prof. Nicola Alberto De Carlo dell’Università degli Studi di Padova per gli aspetti psicosociali, il supporto organizzativo e scientifico di CISES, il sostegno di Cooperativa Polis Nova, ditta Bresciani, Istituto Veneto per i Beni Culturali, della dott.ssa Stefania Bisagni e della prof.ssa Renata Trevisan.

Ma è anche il frutto di un incontro: un anno fa raccontavo al direttore dell’IVBC, Renzo Ravagnan, dei materiali tattili che il Museo mette a disposizione di adulti e bambini non vedenti e delle difficoltà che talvolta gli operatori museali possono incontrare nell’approccio alle disabilità sensoriali e lui mi disse che conosceva una persona che aveva saputo coniugare le competenze necessarie in questo senso e mi fece conoscere la restauratrice e psicologa Greta Schonhaut.

Con lei è nata l’idea di un workshop nell’ambito della conservazione preventiva che ha portato per un’intera settimana cinque persone con disabilità psichica nel giugno del 2017 al Museo per un avvicinamento alla pratica della manutenzione dei beni culturali.
Il Museo è da tempo dotato di una guida accessibile in Lingua dei Segni Italiana, di materiali tattili per adulti e bambini, alcuni dei quali addirittura scaricabili dal sito orientalevenezia.it dedicato ai più piccoli. Recentemente abbiamo iniziato a fare anche visite guidate semplificate per andare incontro alla disabilità cognitiva. Mi è quindi sembrato che la proposta maturata con la dott.ssa Schonhaut potesse dare voce a un’esigenza ulteriore, che è quella bene espressa non solo all’articolo 3 della nostra Costituzione e dalla Convenzione sui diritti delle persone disabili del 2006 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ma anche dall’art. 6 del Codice dei Beni Culturali (D. Lgs. 42/2004), che tutela la fruizione del patrimonio da parte delle persone diversamente abili.

Il Museo è un luogo dove si passa il proprio tempo libero ma è anche un luogo di studio e di lavoro.
L’obiettivo di questo progetto, da parte nostra, era quello di rendere il Museo un luogo vitale, inclusivo, capace di promuovere davvero lo sviluppo della cultura intesa non solo come sapere ma anche come saper fare (art. 34 del DPCM 171/2014). L’accessibilità museale di cui si discute in questi anni si modella soprattutto dalla riflessione condotta nei paesi anglofoni, intercettando discipline molto diverse: la museologia, la museografia, gli studi sui visitatori museali, la didattica, la curatela ma anche la pedagogia, i disability studies, le ricerche sul gaming, sulla partecipazione e sul coinvolgimento delle comunità. Ma credo che un inserimento così diretto nel lavoro museale vero e proprio sia un settore ancora tutto sommato poco esplorato, da cui il valore aggiunto di questa esperienza.

Il coinvolgimento dello staff museale, con le ore di insegnamento e affiancamento che Barbara Biciocchi, Severina Bortolato, Elisa Giacomello ed io abbiamo dedicato al progetto, è stato molto significativo: avere accolto giornalmente questi nuovi operatori ha permesso di scoprire aspetti inediti del proprio lavoro. L’accessibilità ci obbliga a considerare le differenze di ognuno e i diversi stili di apprendimento di cui anche il pubblico normodotato è portatore. Ma la disabilità in particolare, specie se cognitiva, ci insegna a ripensare alla ristrettezza dei nostri metodi valutativi. Cioè la disabilità non è solo il problema di un gruppo minoritario ma può essere considerata la non possibilità di alcune persone di partecipare attivamente alla società, spostando il problema a una responsabilità di contesto.

Tra le persone coinvolte nel progetto c’è stata anche una liceale in alternanza scuola lavoro presso il Museo: ciò ha attivato un circolo educativo virtuoso poiché la studentessa ha imparato insieme ai nostri ospiti a realizzare una scheda conservativa, a utilizzare l’attrezzatura professionale per le riprese, a comprendere le logiche dell’organizzazione dei depositi museali. Infine credo sia stato importante da parte nostra far passare il messaggio che il lavoro di queste persone doveva essere davvero “utile” al Museo. Non è stata la ricostruzione artificiale di un caso di lavoro costruito ad arte, ma una necessità reale del Museo di manutenere e immagazzinare correttamente una serie di opere costitutivamente fragili (considerato che si tratta di materiali per lo più organici), che devono essere tenuti al riparo da luce, polvere, e procedere quindi a un riordino per il quale in caso diverso e seppure in scala di grandezza diversa, il Museo avrebbe dovuto incaricare un operatore. Credo che questa sperimentazione abbia dimostrato che una formazione mirata, seppur minima e basilare, nel settore della manutenzione conservativa, sia realmente possibile in un’ottica di inclusione sociale.