Inclusione e sostenibilità sociale per lo spettacolo

di Alessandro Garzella, Direttore Animali Celesti – Teatro d’arte civile – Pisa

La nostra associazione è composta da artisti, educatori, utenti psichiatrici, studenti e semplici cittadini interessati al teatro e ai valori della diversità.

ANIMALI CELESTI da molti anni a Pisa, in convenzione con ASL Nordovest Toscana e la Clinica Psichiatrica dell’Università, svolge un progetto in rete con gli organismi della cultura, del sociale e della solidarietà. Nostra caratteristica è la continuità di relazione tra un gruppo di professionisti del teatro e persone che vivono situazioni di disagio e marginalità, in una prospettiva di ricerca in cui l’arte non è merce ma energia sottile e coscienza capace di innovare le comunità.

Del nostro progetto vorrei evidenziare tre aspetti che, a mio giudizio, hanno pensieri e azioni coerenti che le tematiche di questo incontro e forse coi modelli da porre all’attenzione.

  • L’ARTE È VITA – Detta così questa ovvietà può sembrare solo banale ma, dall’esperienza della nostra compagnia, non è poi così scontato che un’artista, nel proprio processo d’apprendimento e creazione, comprenda quanto la vita non possa rimanere separata da tutto ciò che, nella bottega dell’artista, determina i processi creativi. Specie l’ascolto di quelle zone dell’esistenza più problematiche e conflittuali. L’impegno civile non è, secondo noi, un vezzo ma una necessità che alimenta il senso e il segno artistico, la sua poesia, attraverso pratiche e insegnamenti che provengono dalle marginalità del nostro mondo. Non si tratta soltanto di includere i diversi nei processi di cittadinanza attiva quanto far si che siano le persone colpite dal dolore, dal bisogno e perfino da follia a prendersi cura dei tanti acciacchi di cui gravemente soffre il teatro.
    È la malattia che cura il teatro, non solo viceversa. Questo ribaltamento di prospettiva – che pone le comunità sociali al centro dei processi di sperimentazione artistica – determina esperienze e scelte spesso sorprendenti, rispetto ai modi in cui un’opera si manifesta, calamitando attori e spettatori che, più di altre comunità, sono attenti alla grazia e all’espressione di segni più sottili rispetto a quelli espressi dalla ricchezza sociale. Tra professionisti e persone in difficoltà, con l’arte, si possono determinare, nel benessere e nel conflitto della relazione, rapporti sani di reciproco contagio. Non è ovviamente che all’improvviso gli attori sono matti e i pazzi guariscono magicamente per qualche terapia: è che le pratiche d’ascolto, col talento, la sapienza e la pazienza spesso determinano possibilità trasformative straordinarie, perché ogni persona, specie se testimone di esperienze di vita particolari, ha dentro una bellezza che attende di essere espressa. Ma che c’entra l’handicap col teatro? Che ci sta a fare un matto accanto a un attore? Noi, senza dare risposte a domande sicuramente appropriate, subito rifiutammo la prospettiva caritatevole, quella rassicurante e altruista, avvalorata da quei compagni di cammino che spesso si sperticano col dire che: “Il teatro, comunque sia, fa bene! Riabilita, integra, include qualcuno che, poverino, capisce poco, soffre di qualche prigionia e non ha nessuna abilità tranne la sfiga di comprendere poco”. Ribaltando anche questa convinzione si scopre che c’è una parte sana nella malattia, e se il teatro ha il coraggio e la capacità di farla esprimere, colpisce, fora lo schermo rassicurante dell’innocuità, con una sostanza portentosa: essere altro da sé, amplificando in scena le diversità che sono in tutti noi.
    Ognuno, ovviamente, reagisce a questa visione in base alla propria sensibilità e cultura: alcuni colgono solo gli aspetti paradossali, pietistici o, peggio, la morbosità sul mostro simpaticone o pauroso, ma altri, i più, percepiscono che c’è un aspetto metafisico nella diversità, specie quando rompe i confini della sofferenza e riesce ad esprimere bellezza, felicità e quella forza della fragilità che incide sulla coscienza collettiva. Pian piano ha preso luce in noi l’idea che, forse, semplificando, mettere in scena le diversità – che poi vuol dire esprimere col linguaggio dell’arte le infinite sproporzioni fisiche, mentali e comportamentali presenti nelle piante, nelle rocce e negli animali – per un verso significa turbare e per l’altro invece svelare e sciogliere i misteri che il teatro da sempre custodisce: la celebrazione di un rito laico in cui le consuetudini si capovolgono, rovesciando i canoni dell’intelligenza e della bellezza, poiché ogni presenza diventa altro da sé, analogia invisibile e concreta.

 

  • L’ARTE È NATURA – Scusate l’assertività di queste affermazioni derivante dalla necessità d’essere sintetico. L’arte ovviamente si esprime attraverso artifici, tecniche, modalità, ritmi e misure ben calibrate da ogni artista in base al proprio stile. Da questo imprinting sono nati luoghi, architetture e spazi anche meravigliosi in cui però l’artista, spesso, si è separato dalle città, dai boschi, dalle piazze, dalla natura. I teatri, nel comune sentire, sono oggi spazi usualmente marginali e scissi dalle attività che caratterizzano i territori, oppure salotti, quasi mai fucine aperte che interagiscono con i processi vivi delle città. Credo che in questa scissione vi siano anche forti responsabilità degli artisti. Solo da qualche anno ha cittadinanza culturale la valorizzazione degli spazi urbani o naturali da rigenerare in luoghi strategicamente significativi per le comunità. La nostra ricerca, nella sua piccola storia passata e attuale, ha sempre generato pubblici e luoghi inusuali: hangar, stalle, piazze, ex manicomi, macelli ed oggi un parco delle biodiversità collocato a Coltano, un borgo periferico del Parco Regionale di San Rossore. Questo spazio in natura, lontano dalle città, marginale rispetto alle centralità degli affari, insegna la biodiversità dell’esistenza ed ha anche suscitato con gli anni un’attenzione impensabile in altri luoghi. La sua fisionomia fa da culla alla ricerca e all’immaginazione. Le sperimentazioni pubbliche, che oltre al nucleo professionale composto da una decina d’artisti, ogni volta coinvolgono più di trenta persone in scena tra utenti psichiatrici, immigrati, adolescenti a rischio di marginalità, studenti e semplici cittadini volontari, attratti dall’energia che trasmette quel luogo. Di natura sono fatti gli oggetti, le suggestioni drammaturgiche e le caratteristiche espressive delle nostre creazioni. Forse è proprio questa particolarità che ci consente di ospitare in un bosco spettatori il cui interesse prescinde dalle caratteristiche sociali del nostro impegno, che noi sottraiamo dalla promozione: a Coltano ANIMALI CELESTI presenta opere, il cui valore è dato dalla dimensione che l’atto artistico e il contesto ambientale fondono tra loro. Sono numeri ridotti quelli dei nostri spettatoti ma non irrilevanti; sono moltiplicatori di ciò che il teatro convenzionale usualmente trascura. Non solo spazi in natura, ma anche i caseggiati dei quartieri popolari così come avviene proprio in questa città, nel quartiere di Sant’Anna, in un progetto che facciamo assieme ad AEDO. Penso che oggi la peculiarità di questi luoghi rappresenti non un rifugio ma un presidio di resistenza dell’artigianato creativo, aggredito dall’omologazione del mercato. Messo a progetto questo potenziale è una ricchezza nazionale da trasmettere ai ragazzi delle università così come ai loro professori. È il teatro che ha bisogno di ciò, almeno quanto la società ha bisogno di una cultura che ritrovi la sua essenza materiale e spirituale nel rapporto tra arte, comunità e natura.

 

  • CREARE RETI D’ARTE – Basta con le reti pasticciate per vincere i bandi. Basta con le scalate ai palazzi per diventare altro da sé, magari rivendicando giovanilismi o perpetrando vecchiume in posizioni di rendita assistenziale. Le reti nascono sul campo, per affinità di progetto, per complicità e scintillio del sentire artistico ed umano. Ciascuno con la sua poesia ma con la necessità comune d’essere squadra. Il teatro può congiungere competenze, sensibilità e saperi che attraversano le età, i generi, le etnie originarie. Il nostro Paese è degno d’un grande teatro nazionale non rivolto soltanto a istituzionalizzare il saputo o scopiazzare altri. Dobbiamo fare in modo che la nostra radice culturale, tra circo e melodramma, abbia una visione internazionale, non appiattita dalle mode e aperta al meticciato. Dobbiamo fare in modo che la dimensione performativa della creazione contemporanea valorizzi le radici della nostra grande storia teatrale. Ciò può avvenire soltanto con il potenziamento di quelle reti di affinità che sono in grado di scambiare pedagogie e saperi, pratiche e circuiti virtuosi sul piano della rottura di steccati, della relazione con le tante maestrie che ha questo Paese. Credo che la rigenerazione dei teatri e degli stessi circuiti distributivi, superando l’assurdità di una produzione indipendente che non fa una piazza nelle reti istituzionali perché l’arretratezza del sistema penalizza proprio la qualità di quel teatro che non è puro intrattenimento o convenzione, passi proprio dallo sviluppo dalle reti di affinità e dei luoghi in cui arte, comunità e culture escono dal ghetto dell’esclusione senza perdere la propria marginalità identitaria, la propria differenza. In questa prospettiva, a conclusione della mia riflessione, è per me necessario nominare le compagnie che condividono con noi questo disegno, quest’idea di scuola che nasce dal sociale e dalle necessità creative degli artisti.

La nostra rete si chiama TEATRI DELLE DIFFERENZE vive da molti anni senza nessuna formalizzazione, si vanta di rispettare etiche e regole libertarie, opera nella Toscana nord occidentale ed è composta da AEDO di Lucca diretto da Satyamo Hernandez, ANIMALI CELESTI teatro d’arte civile con sede prevalente a Pisa, GEOMETRIA DELLE NUVOLE di Cecina e TEATRO DELL’ASSEDIO di Livorno diretto da Michelangelo Ricci.

 

Intervento da LuBeC 2021, convegno “Imprese dello spettacolo”